L’ospedale quella mattina: una verità che cambia tutto

L’ospedale quella mattina era immerso in un’atmosfera insolita. Non si trattava del consueto viavai di medici e infermieri, ma di una tensione sottile, invisibile, che sembrava insinuarsi tra i corridoi, le stanze e le sale d’attesa, come se tutti percepissero che stava per accadere qualcosa di cruciale. Jale camminava a passo deciso verso il suo studio, stringendo una cartellina contenente i risultati dei test di laboratorio, quelli che avrebbero potuto determinare il destino di Bahar. Ogni provetta, ogni analisi silenziosa racchiudeva una speranza fragile, e Jale sapeva quanto il tempo fosse loro nemico.

Si fermò davanti alla porta del suo studio, inspirò profondamente e si preparò. Dare certe notizie non era mai semplice, anche quando potevano essere considerate buone. C’era sempre il rischio che dietro una speranza si celasse un ostacolo ancora più grande. Con mano ferma, compose il numero di Atice. «Signora Atice, sono Jale. È importante. Potete venire subito in ospedale? Porti anche suo marito, per favore.» Un attimo di silenzio, poi la voce tesa di Atice: «È successo qualcosa a Bahar?» «No, non ora, ma ho i risultati. È meglio parlarne di persona.»

Dopo aver chiuso la chiamata, Jale posò la cartellina sulla scrivania e fissò il vuoto. Poco dopo, Sinan bussò alla porta, entrando con aria interrogativa. «Li hai chiamati?» chiese. «Sì, voglio che tu sia presente quando glielo dirò. Ho bisogno di supporto.»

Intanto, nella casa di Enver e Atice, la telefonata di Jale aveva scatenato ansia e inquietudine. Atice, cercando di mantenere la calma, si muoveva freneticamente per prepararsi, mentre Enver chiedeva ansioso a Raffica cosa stesse succedendo. «Non lo so, Enver, ma ho paura…» rispose la domestica. Atice percepiva che stavolta era diverso: la telefonata non portava solo notizie, ma la possibilità di una svolta.

Il viaggio verso l’ospedale fu silenzioso. Enver si lasciava trasportare dalla speranza di un lieto fine, mentre Atice temeva il peso della verità che stava per affrontare. Entrati nello studio di Jale, la luce filtrata dalle tende creava un’atmosfera morbida, quasi irreale. Sul tavolo, la cartellina coi risultati attendeva di essere aperta.

Jale accolse Hatice ed Enver con un sorriso appena accennato, ma i suoi occhi tradivano cautela. «Grazie per essere venuti così in fretta», disse, invitandoli a sedersi. Inspirò profondamente e annunciò: «Abbiamo trovato un midollo compatibile con Bahar». Il silenzio calò immediato. Enver, come se quelle parole fossero ossigeno puro, si alzò in piedi: «Lo sapevo, l’avevo sognato, Jale! Sapevo che l’avremmo trovato!» Atice, invece, rimase immobile, le mani intrecciate sul grembo. «Di chi?» chiese a bassa voce. Jale abbassò lo sguardo: «Sfortunatamente… è di Sirin.»

Il sorriso di Enver non si spense, anzi, sembrava illuminarsi ancora di più. «Perfetto, è nostra figlia, certo che lo farà.» Ma Atice scosse la testa, occhi lucidi. «Non è così semplice, Enver.» Jale intervenne: «Conoscete l’instabilità di Sirin. Non possiamo imporle nulla. E se si rifiutasse?» «Non si rifiuterà», interruppe Enver con fermezza. Ma lo sguardo di Atice tradiva un presagio oscuro: quella compatibilità, per lei, non era una vittoria, ma l’inizio di un nuovo incubo.

Il silenzio che seguì era pesante. Enver fissava Jale con incredulità, mentre Atice stringeva le mani fino a lasciar segni bianchi sulle nocche. «Dobbiamo parlarle il prima possibile», disse Enver, rompendo la tensione. Jale li osservava, consapevole di trovarsi di fronte a due reazioni opposte, come il giorno e la notte. «Vi chiedo solo prudenza. Sirin è imprevedibile. Il suo psichiatra ha detto: niente pressioni.»

Enver, però, non ascoltava ragioni: «So come convincerla.» Si alzò, afferrò la giacca e uscì dallo studio. Atice, sorpresa e irritata, lo seguì a passo rapido lungo il corridoio dell’ospedale. «Vuoi ascoltarmi?» chiese Enver. «Ti ascolto sempre, Hatice, ma questa volta è diverso. Sirin aiuterà Bar, è nostra figlia, non può voltarle le spalle.» «Tu parli come se Sirin fosse normale, ma non lo è. È malata, Enver. Il suo medico ha detto di non forzarla.» «Quello che il medico non sa è che Sirin può essere convinta. La conosco.» «No, tu non la conosci affatto o forse non vuoi vedere. Lei ti manipola sempre.» La tensione esplose: Enver strinse la mascella, la voce tremava per rabbia e decisione. «Voglio il divorzio», annunciò, lasciando Atice senza parole. Il corridoio dell’ospedale sembrava improvvisamente gelido, ogni passo un segnale della frattura ormai definitiva.

Bahar, nel frattempo, ripensava al passato: al giorno in cui aveva scoperto la verità su Sirin e Sarp, alla freddezza di sua sorella, alle spalle coperte dalla pioggia e dalla solitudine. Ogni ricordo era una cicatrice, un monito che la spingeva a non fidarsi, a non cedere, neanche di fronte alla vita stessa. Quando si parlò di un possibile trapianto di midollo da Sirin, Bahar fu irremovibile: «Non lo voglio. Piuttosto muoio.»

Sirin, seduta davanti allo specchio, osservava il proprio riflesso con un mezzo sorriso enigmatico. Per lei la situazione era un’opportunità, non un sacrificio. Quando Enver bussò alla sua porta, Sirin non si mosse subito, lasciando crescere la tensione, poi aprì con tono vellutato e carico di sottile ironia: «Papà!» Enver le spiegò la situazione, ma Sirin rispose con una risata breve, carica di sfida: accettare di aiutare Bahar sarebbe stato un suo gesto, a condizioni rigorosamente dettate da lei.

«Potrei accettare, ma con una condizione», disse, e il sorriso che gli rivolse non era quello di una figlia pronta a salvare la sorella, ma di una donna che stava già giocando le sue carte, pronta a riportare se stessa al centro della scena. Enver tornò a casa turbato, incapace di raccontare ad Atice cosa fosse accaduto. Sirin restò sola, osservando messaggi e foto, consapevole di avere il destino di Bahar nelle mani. «Vediamo chi avrà davvero bisogno di chi», mormorò, quasi sfidando il mondo.

La notte calò sulla città, ma per i protagonisti non c’era riposo. Bahar fissava il soffitto, contando i secondi rimasti, consapevole della fragilità della sua vita. Atice stringeva una tazza fredda, riflettendo sul divorzio e sulla tensione in famiglia. Enver, immerso nei propri pensieri, si chiedeva se Sirin sarebbe stata sincera o avrebbe usato quella situazione per i propri scopi. Jale percorreva corridoi vuoti, consapevole che ogni parola, ogni gesto, avrebbe potuto determinare il futuro di Bahar. Sirin, nella sua stanza, giocava con il destino della sorella, pronta a usare la sua volontà come leva.

L’alba portò nuovi interrogativi: Bahar avrebbe accettato il midollo? Sirin lo avrebbe davvero donato o avrebbe manipolato la situazione? E il matrimonio tra Enver e Atice sarebbe sopravvissuto alla frattura che ormai li divideva? Il tempo stringeva, e il potere delle donne sarebbe stato messo alla prova come mai prima.