Il sacrificio di Sirin, una donazione che sembra possibile
L’odore di disinfettante permeava ogni angolo dell’ospedale, mescolandosi al silenzio pesante che aleggiava tra le pareti. Il tempo sembrava essersi fermato. Bahar giaceva nel suo letto, fragile come mai prima. La sua pelle era quasi trasparente, i capelli radi e spenti a causa della malattia, ma i suoi occhi – quegli occhi sempre pieni di vita – brillavano ancora, tenacemente aggrappati a un barlume di speranza.
Accanto a lei, Nissan disegnava in silenzio, e Doruk le stringeva una mano, con la serietà di chi ha già conosciuto troppo dolore per la sua età. Arif si aggirava nei corridoi, incapace di stare fermo, diviso tra la paura di perderla e il desiderio disperato di salvarla. Le sue mani tremavano, il cuore martellava nel petto ogni volta che un’infermiera si avvicinava con una cartella in mano.
Enver, invece, restava seduto in silenzio, lo sguardo fisso fuori dalla finestra. L’angoscia lo divorava, sapendo di aver taciuto per troppo tempo. Ogni respiro era un rimprovero muto, ogni ricordo una pugnalata. La voce dei medici riecheggiava ancora nella sua mente: “Serve un donatore compatibile, subito. Ogni minuto è prezioso.”
Fu in quel clima sospeso, quasi irreale, che Atice fece la sua comparsa, trascinando con sé Sirin. La ragazza appariva stravolta: i capelli in disordine, il viso teso, gli occhi gonfi di lacrime che non aveva mai versato prima. Per la prima volta, Sirin non sembrava sicura di sé. Non era più l’arrogante manipolatrice che tutti conoscevano. Era semplicemente… spaventata.
“È compatibile,” sussurrò Atice, stringendo il braccio della figlia. “Sirin è compatibile con Bahar.”
Tutti rimasero in silenzio. Il tempo si fermò di nuovo, ma stavolta per un motivo diverso. Gli occhi di Enver si riempirono di lacrime. Arif non riusciva a parlare. Nissan smise di disegnare. Solo Doruk, con innocente fiducia, chiese: “Vuol dire che la mamma può guarire?”
Il dottore confermò: se Sirin acconsentiva alla donazione, Bahar avrebbe avuto una possibilità concreta di sopravvivere. Ma Sirin esitava. Si agitava, tremava, rifiutava di guardare in faccia chiunque. Dentro di lei si scontravano mille emozioni: rabbia, paura, rancore… e qualcosa che forse somigliava a un rimorso.
Atice la supplicava con le lacrime agli occhi. “È tua sorella, Sirin. Non puoi lasciarla morire.”
Nel silenzio che seguì, Sirin finalmente parlò. La sua voce era roca, spezzata. “Perché dovrei salvarla, se lei ha sempre avuto tutto ciò che io non ho mai avuto?”
Lo schiaffo morale fu collettivo. Ma poi, qualcosa cambiò nel suo sguardo. Forse fu lo sguardo di Nissan, forse le mani tremanti di Bahar che cercavano un’ancora nel vuoto. Sirin crollò in ginocchio, le spalle scosse da un pianto isterico che non riusciva più a trattenere.
“Lo farò,” sussurrò infine. “La odio, ma… lo farò.”
Il personale medico si mise subito in moto. Tutti trattenevano il respiro, consapevoli che il destino di Bahar era legato ora al gesto della sorella che l’aveva sempre ferita. Le ore successive furono cariche di tensione. Sirin fu preparata per il prelievo, mentre Bahar, ancora incosciente, veniva trasportata in sala operatoria.
Atice pregava in silenzio. Enver stringeva le mani ai bambini. Arif guardava ogni porta con angoscia. Era come se l’intero ospedale respirasse in attesa di un miracolo.
E il miracolo, forse, si compì davvero.
Dopo ore di attesa, il medico uscì con un’espressione serena. “Il trapianto è andato bene. Ora dobbiamo aspettare, ma ci sono buone possibilità che Bahar si riprenda.”
Tutti si abbracciarono, scossi dalla commozione. Nessuno sapeva come comportarsi con Sirin, che giaceva esausta, svuotata, in una stanza accanto. Aveva fatto un gesto che nessuno si aspettava. Forse per senso di colpa, forse per bisogno di perdono, o forse solo per dimostrare che anche lei poteva essere diversa.
Bahar, lentamente, aprì gli occhi. Vide i volti dei suoi cari, sentì le mani dei figli nelle sue, e per la prima volta da settimane, sorrise debolmente.
Non sapeva ancora cosa fosse successo. Non sapeva che a salvarla era stata proprio la persona che più l’aveva fatta soffrire. Ma forse, un giorno, lo avrebbe saputo. E forse, quel giorno, avrebbe trovato nel cuore la forza per perdonare.