Sürprizler Tahsin Yenişehirli’den Sorulur | Siyah Kalp
(Parte 6 – La verità non si può più seppellire)
Bahar si risvegliò in un luogo che sembrava un vecchio ospedale abbandonato, ma troppo pulito, troppo ordinato per esserlo davvero. Il neon bianco sopra di lei tremolava, l’odore di disinfettante era pungente. Non era sola. Dall’altra parte del vetro, un uomo la osservava. Non era İlyas, ma Tahsin in persona. Il burattinaio ora era davanti a lei. “Benvenuta, Bahar,” disse con tono calmo. “Qui inizieremo la cura. Ma prima… voglio che tu ricordi.”
Bahar non capiva. Ma mentre lui le mostrava vecchie fotografie, documenti sanitari, lettere… pezzi dimenticati del suo passato cominciavano a tornare a galla. Non era solo una paziente, una madre, una sorella. C’era una parte di lei che era stata cancellata.
Nel frattempo, alla villa devastata, Sarp impazziva. Il rapimento di Bahar lo aveva distrutto, ma anche liberato dal velo di menzogne che lui stesso aveva aiutato a costruire. Si recò da Enver, l’unico che potesse sapere qualcosa di più su Tahsin. E quello che scoprì fu agghiacciante: Bahar era in realtà figlia di una donna che aveva cercato di fuggire da un programma sperimentale clandestino, finanziato da Tahsin stesso venticinque anni prima. Bahar era nata da quella fuga. Era l’unica sopravvissuta. Il motivo per cui Tahsin la voleva viva… o morta.
Hatice, nel frattempo, ricevette una chiamata da Sirin. “Mamma, devi venire da me. Adesso.” Per la prima volta da mesi, madre e figlia si incontrarono in un parco isolato. Sirin era distrutta, ma decisa. “Non posso più mentire. C’è qualcosa che devi sapere su Sarp… e su Bahar. Ho nascosto la compatibilità per la donazione. Ma non solo.” Mostrò a Hatice una chiavetta USB. “Questa contiene i filmati delle visite di Sarp alla sede di Tahsin. Per mesi.”
Hatice scoppiò in lacrime. “Perché l’hai fatto?” Sirin abbassò lo sguardo. “Perché l’ho amata e odiata nello stesso momento. Perché volevo che mi vedesse… ma adesso voglio solo salvarla.”
Enver intanto contattò un vecchio giornalista, amico fidato. Doveva far esplodere lo scandalo. I documenti raccolti parlavano chiaro: Tahsin aveva creato un progetto di manipolazione genetica, usato donne come cavie, e poi insabbiato tutto. Bahar era la prova vivente che qualcosa era sfuggito al suo controllo. Se la verità fosse venuta a galla, l’impero di Tahsin sarebbe crollato. Ma farlo sarebbe stato pericoloso.
Mentre il piano di fuga veniva preparato, Bahar riuscì ad avvicinare una delle infermiere del centro. Una giovane donna che sembrava turbata. “Non voglio più essere parte di questo,” le disse. “Mio fratello è morto per colpa loro.” E le consegnò un cellulare rudimentale. “Hai trenta secondi. Chiama chi vuoi.” Bahar non esitò: digitò il numero di Nisan, la figlia. Quando sentì la sua voce, non parlò, ma sussurrò solo: “Mamma ti ama. Ricorda chi sei.”
La chiamata fu tracciata. Sarp e Enver si misero in moto. La villa abbandonata non era lontana. Ma non sapevano che qualcuno li stava già aspettando. İlyas.
Lo scontro fu inevitabile. Mentre Enver distraeva gli uomini armati all’esterno, Sarp si introdusse nel sotterraneo. Trovò Bahar legata a una barella, indebolita ma viva. “Sapevo che saresti venuto,” disse lei con voce fioca. “Ti ho delusa,” rispose lui. “Ma ora non ti lascio più.”
Uscire però fu un inferno. Mentre salivano le scale, sirene della polizia echeggiarono. Ma non era salvezza: erano uomini di Tahsin, vestiti da agenti. Iniziò un conflitto a fuoco. Enver fu colpito a una spalla. Bahar, nascosta da Sarp, cercò di proteggere un bambino trovato nei corridoi – un altro piccolo prigioniero delle follie di Tahsin.
Quando tutto sembrava perduto, Sirin arrivò in auto, accompagnata dalla vera polizia. Aveva consegnato tutto ai media e al procuratore. La diretta nazionale iniziò proprio in quel momento: documenti, nomi, conti bancari, testimoni… l’intero sistema di Tahsin era ora sotto gli occhi del paese.
In pochi minuti, l’edificio fu circondato. Tahsin cercò di fuggire da un tunnel segreto, ma fu fermato da Hatice, che gli puntò contro un’arma. “Per anni hai rovinato le nostre vite. Non oggi.” Ma non sparò. Lo consegnò alla giustizia. La vera punizione sarebbe stata pubblica.
Bahar fu portata in ospedale. Il bambino che aveva salvato era suo fratello, frutto di una delle ultime cavie sopravvissute al programma. Non aveva nemmeno un nome. Lei lo chiamò Umut. Speranza.
E quando le telecamere si spensero, Sirin si sedette accanto a sua sorella. “Mi perdonerai mai?” Bahar sorrise. “Solo se mi prometti che non andrai via.”
Sarp, fuori dalla stanza, si sedette in silenzio. Non aveva vinto, ma forse, per la prima volta, non aveva perso tutto.